Fisco: il cliente paga la mancata vigilanza sul professionista infedele

Fisco: il cliente paga la mancata vigilanza sul professionista infedele

Non può ritenersi esente da responsabilità il contribuente che non abbia in concreto vigilato sul professionista cui erano affidate le proprie incombenze fiscali. È quanto ha stabilito la suprema Corte, con l’ordinanza n. 25158 del 19 settembre 2024, accogliendo l’apposito ricorso proposto dall’Amministrazione finanziaria.

In merito, i giudici di piazza Cavour hanno chiarito, in tema di sanzioni amministrative per violazioni tributarie, che ai fini dell’esclusione di responsabilità per difetto dell’elemento soggettivo, grava sul contribuente, ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo n. 472/1997, la prova dell’assenza assoluta di colpa, occorrendo a tal fine la dimostrazione di versare in stato di ignoranza incolpevole, non superabile con l’uso dell’ordinaria diligenza.

È, dunque, colpevole il contribuente per mancato pagamento delle imposte che consegua alla condotta del professionista infedele, laddove non fornisca piena prova dell’attività di vigilanza e controllo in concreto esercitata sull’operato dello stesso (facendosi, ad esempio, consegnare le ricevute telematiche dell’avvenuta presentazione della dichiarazione) o non dia prova del comportamento fraudolento del professionista, come, per esempio, in caso di falsificazione dei modelli di pagamento F24.

A tal fine, hanno in ultimo chiarito i magistrati romani, non è sufficiente la mera presentazione di denuncia penale.

Il caso, le decisioni di merito e il ricorso in Cassazione
L’Agenzia delle entrate ha emesso e notificato, nei confronti di un contribuente, titolare di un’impresa individuale, un avviso di accertamento con il quale, a seguito di omessa dichiarazione dei redditi, si rideterminavano e si sottoponevano a tassazione maggiori ricavi a fini Irpef, Irap e Iva, comminando e richiedendo il pagamento delle previste sanzioni e degli interessi.

Il contribuente ha impugnato l’atto impositivo dinanzi la competente Corte di giustizia tributaria di primo grado di Palermo, affermando che l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, e di tutto quello che da questa omissione ne era disceso, era ascrivibile unicamente al comportamento infedele tenuto dal consulente finanziario cui aveva affidato, appunto, le proprie incombenze fiscali.

I giudici tributari palermitani hanno accolto parzialmente il ricorso del contribuente, non ritenendo dovute le sanzioni richieste dall’ufficio e stessa decisione veniva presa, in grado di appello, dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia, sulla scorta della considerazione che le violazioni erano ascrivibili unicamente al comportamento del consulente verso il quale, tra l’altro,  il contribuente aveva sporto apposita denuncia penale una volta scoperto il comportamento negligente e fraudolento.

Avverso tali determinazioni dei magistrati tributari, l’Agenzia delle entrate ha deciso, quindi, di proporre ricorso di ultima istanza alla suprema Corte di cassazione lamentando violazione e falsa applicazione degli articoli 5 e 6, comma 3 , del Dlgs n. 472/1997, nonché dell’articolo 1228 del codice civile, in quanto, a proprio giudizio, il contribuente non può andare esente da comportamenti assunti dal proprio consulente ove non abbia attentamente vigilato sull’operato dello stesso, e né al fine di far venire meno la responsabilità, sottoforma di colpa in vigilando del primo, può essere considerata sufficiente la mera proposizione di una denuncia penale nei confronti del consulente.

Le norme “presumibilmente” violate
Con disposizione di carattere generale, l’articolo 1228 del codice civile, rubricato “Responsabilità per fatto degli ausiliari”, prevede che, salva diversa volontà delle parti, il debitore, che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro.

Il decreto legislativo n. 472/1997, concernente “Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie”, dispone, invece, all’articolo 5, comma 1, che nelle violazioni punite con sanzioni amministrative ciascuno risponde della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa e che le violazioni commesse nell’esercizio dell’attività di consulenza tributaria e comportanti la soluzione di problemi di speciale difficoltà sono punibili solo in caso di dolo o colpa grave. E la colpa è grave, ai sensi del successivo comma 3, quando l’imperizia o la negligenza del comportamento sono indiscutibili e non è possibile dubitare ragionevolmente del significato e della portata della norma violata e, di conseguenza, risulta evidente la macroscopica inosservanza di elementari obblighi tributari.

Infine, ai sensi del successivo comma 4 è dolosa la violazione attuata con l’intento di pregiudicare la determinazione dell’imponibile o dell’imposta ovvero diretta a ostacolare l’attività amministrativa di accertamento.

Analizzando l’articolo 6 dello stesso Dlgs, riguardante le cause di non punibilità, rileviamo come, ai sensi dei commi 1 e 2, premesso che l’agente non è responsabile quando l’errore non è determinato da colpa, non è punibile l’autore della violazione quando essa è determinata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferiscono, nonché da indeterminatezza delle richieste di informazioni o dei modelli per la dichiarazione e per il pagamento. Inoltre, il contribuente, il sostituto e il responsabile d’imposta non sono punibili quando dimostrano che il pagamento del tributo non è stato eseguito per fatto denunciato all’autorità giudiziaria e addebitabile esclusivamente a terzi e non è punibile chi ha commesso il fatto per forza maggiore (commi 3 e 5). Infine, non sono punibili le violazioni che non arrecano concreto pregiudizio all’esercizio delle azioni di controllo e non incidono sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo e non è punibile il contribuente che si adegua alle indicazioni rese dall’amministrazione competente con i documenti di prassi (commi 5-bis e 5-ter).

La decisione della Corte
Chiamati a pronunciarsi definitivamente sulla questione, i magistrati di legittimità hanno avallato le tesi dell’Amministrazione finanziaria, cassando la decisione dei giudici tributari di secondo grado.

I giudici di legittimità hanno, infatti, ricordato come, per costante giurisprudenza in tema di sanzioni amministrative per violazioni tributarie, grava sul contribuente ai sensi degli articoli 5 e 6 del Dlgs n. 472/1997, e al fine di poter escludere la propria responsabilità per difetto dell’elemento soggettivo, la prova concreta dell’assenza assoluta di colpa, occorrendo a tal fine la dimostrazione di versare in stato di ignoranza incolpevole, non superabile con l’uso dell’ordinaria diligenza.

Come anche chiaramente affermato dalle recenti decisioni della Cassazione (nn. 12901/2019 e 21061/2018) non può, quindi, ritenersi esente da responsabilità il contribuente che non abbia vigilato sul professionista cui egli stesso aveva affidato le proprie incombenze fiscali.

Per andare esente dalla responsabilità per mancato pagamento delle imposte, che sia conseguenza di un comportamento infedele del professionista a ciò deputato, il contribuente deve, dunque, fornire un’adeguata prova dell’attività di vigilanza e controllo in concreto esercitata sull’operato del professionista, facendosi, ad esempio, consegnare le ricevute telematiche dell’avvenuta presentazione della dichiarazione.

E a tal fine, hanno, in ultimo, chiarito i giudici di legittimità, non è bastevole la mera presentazione di una denuncia penale nei confronti del professionista infedele, principio questo del resto già affermato anche dalle precedenti pronunce della medesima Corte di Cassazione (nn. 9422 e 8914 del 2018).